Quando ricorrono i casi di MOBBING e come può agire in giudizio il lavoratore per ottenere il risarcimento del danno?
Il termine “mobbing” è largamente diffuso, tuttavia la sua figura non è prevista nel nostro ordinamento, mancando una norma specifica che ne descriva le caratteristiche e le conseguenze.
Al contrario, la nozione di mobbing rimane tutt’ora frutto dell’elaborazione dei Tribunali e delle sentenze dei Giudici.
Il mobbing viene definito come l’insieme di quei comportamenti posti in essere dal datore, dai suoi intermedi o dai colleghi, che si traducono in atteggiamenti persecutori, attuati con determinazione e continuità, tali da arrecare danni rilevanti alla condizione psico-fisica del lavoratore.
Si tratta di azioni ostili, anche se limitate nel tempo, tali da provocare nel lavoratore una modificazione in negativo, costante e permanente, della situazione lavorativa, idonea a pregiudicare la sua salute.
Il datore di lavoro è responsabile di tali condotte sia che egli stesso le realizzi, sia che queste siano state attuate da altro dipendente. In tale ultimo caso la responsabilità del datore di lavoro sussiste anche in assenza di un suo specifico intento lesivo, dal momento che egli ha il dovere di reprimere, prevenire e scoraggiare tali comportamenti.
In ogni caso è compito del lavoratore dimostrare in giudizio il rapporto tra la condotta del datore di lavoro il danno lamentato, dovendo far emergere la persecutorietà delle condotte del datore e la loro continuità; in caso contrario il lavoratore non potrà ottenere il risarcimento del danno.
Con la recente Ordinanza del 23 maggio 2022, n. 16580, la Cassazione ha escluso il mobbing, e quindi ha escluso la responsabilità del datore di lavoro, qualora il pregiudizio patito dal lavoratore derivi dal tipo di prestazione lavorativa o se il tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità.