Il Consiglio di Stato ha ribadito che lo stato di gravidanza non può costituire una causa di esclusione dal concorso o dalla instaurazione del rapporto di lavoro.
In nessun caso lo stato di gravidanza può costituire un ostacolo all’ accesso al lavoro o fonte di discriminazione nel rapporto lavorativo.
E’ quanto ribadito dal Consiglio di Stato in una recente sentenza (n. 8578/2021) in una fattispecie in cui la candidata era stata esclusa dalla procedura di reclutamento dei candidati “idonei non vincitori” di un concorso pubblico per allievi finanziari.
Ebbene, per quanto lo stato di gravidanza possa rappresentare una condizione ostativa allo svolgimento della prestazione lavorativa, esso non può mai determinare la perdita in definitiva della possibilità per la donna di accedere al posto di lavoro.
E ciò anche quando questo comporti un maggior onere per la Pubblica Amministrazione o un aggravio della procedura concorsuale per la posizione degli altri candidati.
Ciò in quanto il principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione non è idoneo a “a giustificare il sacrificio definitivo mediante l’esclusione dal concorso, ma impone il giusto bilanciamento dei contrapposti interessi, in quanto espressione di diritti aventi pari dignità costituzionale”.
Il quadro normativo Costituzionale, comunitario ed internazionale, ivi compreso l’art. 11 della Convenzione ONU del 1979, impone che sia rimossa ogni forma di discriminazione “nei confronti delle donne a causa del loro matrimonio o della loro maternità e garantire il loro diritto effettivo al lavoro”.
Per tale ragione deve concludersi che l’esclusione definitiva dalla procedura concorsuale di una candidata in ragione del suo stato di gravidanza è del tutto illegittima in quanto contraria al principio dell’uguaglianza sostanziale tra i candidati.